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Fast & Furious 8

Allora, metto subito le mani avanti riguardo a Fast & Furious 7: me lo ricordo bello, divertente, con delle scene d’azione enormi (quella del mio cuore rimane Stath vs l’ospedale in piano sequenza, fosse anche solo perché ti colpisce subito sui denti, però pure l’inseguimento in montagna e i salti a Dubai, oh!) ma anche sconclusionato e farraginoso nella scrittura, poco efficace sul piano emotivo, poco equilibrato e anche per questo eccessivamente lungo, al punto che verso la fine del macello conclusivo mi aveva un po’ stancato. Però, ehi, quei momenti là, due anni dopo, ancora mi fanno spalancare la bocca solo a ripensarci. Ecco, Fast & Furious 8 non ha quella cosa della bocca spalancata, non riesce ad essere altrettanto enorme e, soprattutto, fatica a inventarsi davvero qualcosa, accontentandosi invece di recuperare, omaggiare e riciclare in chiave cafona. Ma i lati “negativi” (virgolette d’obbligo) finiscono lì, perché ha comunque delle scene d’azione grosse e divertenti e soprattutto questa volta le inserisce in un film che ha senso dall’inizio alla fine (nei limiti concessi da roba di questo tipo, s’intende), non perde mai il ritmo, funziona a tutti i livelli ed è complessivamente migliore. Forse il migliore della serie dopo il quinto. Meglio così? Non so, per sicurezza nei prossimi giorni torno a vederlo.

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xXx – Il ritorno di Xander Cage

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Che oggetto buffo, questo nuovo xXx. Il tentativo è chiaro e smaccato: ripetere la magia riuscita con Fast & Furious, prendendo una serie caduta in disgrazia e dandole nuova vita all’insegna del macello sborone che, per altro, in questo caso era già il cuore del primissimo episodio, ma in un momento storico nel quale era forse troppo presto per tentare quella via. Oggi, invece, quelle cose dominano i multisala, quindi l’idea è comprensibile e tutto sommato apprezzabile. Anche l’approccio, fondamentalmente, è lo stesso dei Fast & Furious, a base di attenzione surreale per una continuity di cui non frega nulla a nessuno (se non magari a quel nerdacchione in incognito di Vin Diesel) e creazione di un supergruppo su cui costruire seguiti infiniti. Certo, qua sembra tutto un po’ più macchinoso e meno sincero, vuoi perché ci stai riprovando, vuoi perché il materiale di partenza è se possibile ancora più scarno e povero, ma insomma, se il risultato funziona, chissenefrega. Il problema è che funziona solo in parte.

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La robbaccia del sabato mattina: Deadpool!

Allora, facciamo un’ultima rassegnina di trailer e video buffi subito prima di levarci dalle palle per un po’ di relax nella terra dei cachi.

By the Sea, il nuovo film diretto da Angelina Jolie su Angelina Jolie che si fa le paranoie d’amore con Brad Pitt al mare in Francia. Mi attira come un dito in un occhio, anche se c’è Mélanie Laurent. Boh.

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Pitch Black


Pitch Black (USA, 2000)
di David Twohy
con Vin Diesel, Radha Mitchell, Cole Hauser, Keith David

Lo scorrere del tempo intacca quasi sempre – nel bene e nel male – il fascino di un b-movie e Pitch Black non fa eccezione. Otto anni dopo, certi dialoghi e certe situazioni appaiono un po’ troppo sopra le righe, i personaggi sembrano aver perso un po’ di freschezza e lo stesso Vin Diesel, che pure in questo film mantiene ancora tutto il suo fascino e il suo carisma, non è più lo sfolgorante attore sconosciuto che bucava lo schermo, perché nel frattempo si è trasformato in una macchietta ombra di se stessa. Eppure ancora oggi Pitch Black non nasconde tutti gli ottimi motivi per cui a suo tempo divenne velocemente un piccolo cult.

David Twohy, maestro nel cavare il sangue dalle rape, pur lavorando con un budget ristrettissimo e forti limiti di tempo riuscì a creare un film dalla forte identità estetica, con immagini affascinanti ed evocative, per lo più basate sulla bella idea del sistema solare “multiplo”. Di immagini forti in Pitch Black non ce ne sono molte, ma quando spuntano colpiscono nel segno, per esempio con quella bella fiammata alcolica nell’oscurità durante la fuga notturna, o con gli sguardi filtrati dagli occhi di Riddick, capace di vedere al buio grazie a un’operazione cui si è sottoposto durante il suo soggiorno in carcere.

E all’intrigante ricerca visiva si aggiungono tre protagonisti antieroi nel vero senso della parola: un serial killer, un cacciatore di taglie tossicodipendente e una donna pronta a sacrificare la vita di chiunque per salvare la propria. Twohy prende questo trio improbabile e lo rende preda degli ennesimi figli illegittimi di Alien, creature volanti refrattarie alla luce ma micidiali al buio. Proprio sul fascino inquietante dell’oscurità gioca le sue carte migliori la seconda parte del film, che appassiona grazie a un ritmo trascinante e a una certa imprevedibilità di alcuni snodi narrativi. Nulla di trascendentale, intendiamoci, ma, fra una morte prevedibile e l’altra, prima della fine ci lascia le penne qualcuno che, secondo i canoni del genere, non t’aspetteresti.

Pitch Black, insomma, pur con tutti i suoi limiti e con l’età che avanza, rimane ancora oggi un gran bel b-movie, ruspante e appassionante, dalla fascinosa caratterizzazione visiva e a modo suo ancora originale in certi sviluppi di sceneggiatura. Ottima, poi, l’edizione su HD-DVD, che rende davvero giustizia alla particolare estetica del film (anche se verso la fine si nota un po’ qualche imperfezione della pellicola).

Avevo già parlato di Pitch Black ai tempi dell’uscita cinematografica. Se proprio non avete nulla da fare, potete leggere il vecchio post qui. Ma non ne vale la pena, ve l’assicuro.

Prova a incastrarmi

Find Me Guilty (USA, 2005)
di Sidney Lumet
con Vin Diesel, Ron Silver, Peter Dinklage

Prova a incastrarmi racconta del più lungo processo per associazione a delinquere di stampo mafioso che si sia mai visto negli Stati Uniti d’America. Un interminabile procedimento al termine del quale, dopo dieci anni di indagini, ottocentocinquanta prove esibite, oltre cinquecento giorni di estenuante procedura legale, i venti accusati furono tutti assolti.

Nel raccontare queste vicende, Sidney Lumet si concentra sulla figura di Jack DiNorscio. Quando inizia il processo, Jackie è già stato incastrato per traffico di droga e sta scontando la sua condanna. Nonostante le allettanti proposte che gli vengono fatte, si rifiuta di tradire i suoi amici per collaborare con l’accusa e decide di difendersi da solo. Il personaggio interpretato da un ottimo Vin Diesel diventa così il simbolo di un processo delirante, e viene usato da Lumet per mettere in luce le assurdità di un sistema giudiziario talmente complesso e deficitario da sfidare il buon senso.

Nel fare questo, però, il regista si dimentica – magari volontariamente – della tensione drammatica. Prova a incastrarmi non è il classico film “legale” in cui l’esito del processo tiene lo spettatore col fiato sospeso. Vive di bei momenti, delle “sparate” di DiNorscio davanti a giudice e giuria, del confronto col cugino che ha tentato di ucciderlo, dell’incontro con l’ex moglie. E a rendere queste scene piacevoli ci pensano i dialoghi brillanti e azzeccati e le ottime interpretazioni di tutti gli attori.

Una volta giunti al termine dell’estenuante processo, però, diventa difficile relazionarsi emotivamente agli eventi. Certo, il film ci presenta un gruppo di mafiosi come simpatiche e piacevoli macchiette, messi di fronte a un procuratore insopportabile, che chiama al banco testimoni incerti e inconsistenti al punto da far venire dubbi sulle verità che indubbiamente presentano. Ma allo stesso tempo non ci viene permesso di dimenticare che, per quanto divertenti possano essere, si tratta pur sempre di mafiosi, gente dalla vita inaccettabile e imperdonabile, e che difficilmente si può gioire per la loro assoluzione.

Lo stesso protagonista è un personaggio ambiguo, dai modi ammalianti e accattivanti, disposto a tutto per non tradire l’affetto e la fiducia dei suoi amici, ma contemporaneamente squallido e miserevole nei racconti del suo passato. Ed è infatti tutto per lui un finale agrodolce, che unisce al sorriso della vittoria la consapevolezza di non poter sfuggire all’ancora lunga condanna da scontare. Prova a incastrarmi è un film amaro e interessante, cui manca però la scintilla che avrebbe potuto renderlo davvero grande.

P.S.
Sì sì, lo so, sono monotono, ma chi se ne fotte: ho visto questo film su Sky, in originale coi sottotitoli in italiano. Non so se i sottotitoli seguano il doppiaggio alla lettera, ma se lo fanno spiace davvero, perché contengono una gran quantità di ingiustificabili cambiamenti, apparentemente finalizzati a volgarizzare e rendere più bassa la comicità dei personaggi. Insomma, ci siamo capiti.

Il gigante di ferro


The Iron Giant (USA, 1999)
di Brad Bird
con le voci di Eli Marienthal, Vin Diesel, Harry Connick Jr., Christopher McDonald, Jennifer Aniston

Cinque anni prima di recarsi alla corte di John Lasseter e spiegargli come fare (meglio) il suo lavoro, Brad Bird già si dilettava a nuclearizzare gli altrui culi con questo splendido gioiello. Ispirato all’omonimo romanzo di Ted Hughes, Il gigante di ferro racconta del piccolo Hogarth e della sua tenera amicizia con un enorme robottone venuto dallo spazio. L’iniziale incapacità di comunicare, le incomprensioni, la paura di chi sta loro attorno, il pericolo rappresentato da un uomo del governo desideroso di spazzare via la minaccia “alienocomunista”… il pensiero va inevitabilmente ad E.T.

Ma il film di Brad Bird non è una semplice fotocopia animata della pellicola di Steven Spielberg, ha una sua anima viva e pulsante, fatta di una sceneggiatura semplice e brillantissima, capace di parlare a cuore aperto mentre si rivolge a un pubblico veramente di tutte le età. Dialoghi frizzanti e gag divertentissime fanno da collante per una vicenda molto meno scontata e piatta di quanto ci si potrebbe aspettare. Il gigante di ferro riflette sulla natura umana, sulla necessità di costruirsi il proprio destino, di crearlo con le proprie scelte e le proprie azioni. Si racconta con una credibilità e una passione tali da assorbire completamente e far dimenticare in un amen l’iniziale sbigottimento di fronte a un’animazione cui (per scelte stilistiche e “atmosfera”) non siamo purtroppo più abituati.

Vive grazie ai bei personaggi, stereotipati nella concezione, ma tratteggiati benissimo nella grafica e nella personalità, alle tante idee affascinanti, per esempio il delizioso filmato iniziale sulle contromisure in caso di bombardamento nucleare, e soprattutto alla voglia di realizzare un film. Vero, vivo, senza animaletti umanizzati e numeri musicali, con delle ottime interpretazioni da parte dei doppiatori e una magistrale scrittura dei personaggi. Brad Bird aveva una storia da raccontare e l’ha fatto nel miglior modo possibile, con un film d’animazione intenso e toccante.

Pitch Black


Pitch Black (USA,2000)
di David N. Twohy
con Vin Diesel, Radha Mitchell, Cole Hauser

Signori… un gran film di genere, ottimamente diretto (dal regista di The Arrival, bel film con Charlie Sheen dalle atmosfere assimilabili a quelle di X-Files, giunto in Italia solo per il mercato home video e massacrato da pan & scan e doppiaggio). Una bella fotografia, inquietante e di grande atmosfera, degli attori decisamente in parte, una sceneggiatura divertente e a tratti imprevedibile e dei signori effetti speciali. Deve molto ad Alien, come un po’ tutti i film del genere usciti negli ultimi vent’anni, ma questo non è necessariamente un limite.

Affascinante e inquietante, capace di giocare sull’ignoto, il non detto, sbattendo ben poco in faccia allo spettatore con risultati notevoli. E, per essere un film hollywoodiano, anche in grado di andare molto contro gli stereotipi del genere, soprattutto nella caratterizzazione dei protagonisti. Un assassino evaso di prigione e privo di una qualsiasi morale, una tizia che non si fa tanti problemi a sacrificare quaranta persone per salvarsi la vita e un mercenario senza scrupoli. Ok, un paio di loro hanno un minimo di rigurgito morale verso la fine, ma nulla di particolarmente significativo e, soprattutto, spontaneo. E la lotta allo stereotipo si manifesta anche nello sviluppo della trama, con un susseguirsi di morti e avvenimenti tutt’altro che prevedibile. Un gioiello.