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Pitch Black


Pitch Black (USA, 2000)
di David Twohy
con Vin Diesel, Radha Mitchell, Cole Hauser, Keith David

Lo scorrere del tempo intacca quasi sempre – nel bene e nel male – il fascino di un b-movie e Pitch Black non fa eccezione. Otto anni dopo, certi dialoghi e certe situazioni appaiono un po’ troppo sopra le righe, i personaggi sembrano aver perso un po’ di freschezza e lo stesso Vin Diesel, che pure in questo film mantiene ancora tutto il suo fascino e il suo carisma, non è più lo sfolgorante attore sconosciuto che bucava lo schermo, perché nel frattempo si è trasformato in una macchietta ombra di se stessa. Eppure ancora oggi Pitch Black non nasconde tutti gli ottimi motivi per cui a suo tempo divenne velocemente un piccolo cult.

David Twohy, maestro nel cavare il sangue dalle rape, pur lavorando con un budget ristrettissimo e forti limiti di tempo riuscì a creare un film dalla forte identità estetica, con immagini affascinanti ed evocative, per lo più basate sulla bella idea del sistema solare “multiplo”. Di immagini forti in Pitch Black non ce ne sono molte, ma quando spuntano colpiscono nel segno, per esempio con quella bella fiammata alcolica nell’oscurità durante la fuga notturna, o con gli sguardi filtrati dagli occhi di Riddick, capace di vedere al buio grazie a un’operazione cui si è sottoposto durante il suo soggiorno in carcere.

E all’intrigante ricerca visiva si aggiungono tre protagonisti antieroi nel vero senso della parola: un serial killer, un cacciatore di taglie tossicodipendente e una donna pronta a sacrificare la vita di chiunque per salvare la propria. Twohy prende questo trio improbabile e lo rende preda degli ennesimi figli illegittimi di Alien, creature volanti refrattarie alla luce ma micidiali al buio. Proprio sul fascino inquietante dell’oscurità gioca le sue carte migliori la seconda parte del film, che appassiona grazie a un ritmo trascinante e a una certa imprevedibilità di alcuni snodi narrativi. Nulla di trascendentale, intendiamoci, ma, fra una morte prevedibile e l’altra, prima della fine ci lascia le penne qualcuno che, secondo i canoni del genere, non t’aspetteresti.

Pitch Black, insomma, pur con tutti i suoi limiti e con l’età che avanza, rimane ancora oggi un gran bel b-movie, ruspante e appassionante, dalla fascinosa caratterizzazione visiva e a modo suo ancora originale in certi sviluppi di sceneggiatura. Ottima, poi, l’edizione su HD-DVD, che rende davvero giustizia alla particolare estetica del film (anche se verso la fine si nota un po’ qualche imperfezione della pellicola).

Avevo già parlato di Pitch Black ai tempi dell’uscita cinematografica. Se proprio non avete nulla da fare, potete leggere il vecchio post qui. Ma non ne vale la pena, ve l’assicuro.

Man on Fire


Man on Fire (USA, 2004)
di
Tony Scott
con
Denzel Washington, Dakota Fanning, Marc Anthony, Radha Mitchell, Christopher Walken, Giancarlo Giannini, Rachel Ticotin, Mickey Rourke

“Forgiveness is between them and God. It’s my job to arrange the meeting.”

Bel noir, cinico e struggente, firmato dalla penna del sempre ottimo Brian Helgeland, che grazia Tony Scott con uno script solido, crudo e senza compromessi, con personaggi ben delineati e dialoghi eccellenti. Il regista britannico affronta di petto una pellicola sostanzialmente priva di azione e riesce nel non facile compito di darle un ritmo inesorabile sfruttando i famigerati “giochetti da videoclipparo” e, incredibile ma vero, riuscendo a trovare loro un preciso senso narrativo.

Splendida la prima parte, in cui si costruiscono i rapporti fra i personaggi e vengono poste estremamente bene le premesse drammatiche della vicenda, estremamente efficace la seconda, che mette in scena l’implacabile, inesorabile e a modo sua placida carica distruttiva del protagonista. Il film si perde forse nel finale, cercando colpi di scena tutto sommato un po’ inutili, ma regge bene fino all’inevitabile e drammatica conclusione.

Bravo Scott a non farsi prendere dal compiacimento, bravo Helgeland a scavare bene e a fondo negli stereotipi del genere, magnifici Denzel Washington e soprattutto la fuori scala Dakota Fanning. Non un capolavoro, forse neanche un gran film, ma certo l’ennesima pedata in faccia agli stolti detrattori dello Scott “minore”.

Silent Hill


Silent Hill (Giappone/USA/Francia, 2006)
di
Cristophe Gans
con
Radha Mitchell, Sean Bean, Jodelle Ferland, Laurie Holden, Deborah Kara Unger, Alice Krige

L’adattamento cinematografico della saga horror Konami è esattamente ciò che, pur con tutte le buone speranze alimentate dal trailer, era lecito attendersi da quel mediocre narratore di Christophe Gans: una lunga serie di belle, pacchiane e vuote cartoline dalla città di Silent Hill, confezionate a regola d’arte, ma prive di qualsiasi senso cinematografico.

L’immaginario visivo dei videogiochi, grazie soprattutto allo splendido lavoro dell’ormai fedele Dan Lautstsen, è riprodotto alla perfezione, con una fedeltà notevole. La cura con cui personaggi, ambienti, situazioni e mostri visti nei giochi sono realizzati è impressionante, ma tutto sommato prevedibile, vista la fedeltà quasi maniacale con cui Gans si era occupato un decennio fa di Crying Freeman. E splendide ed evocative sono molte delle immagini messe assieme dal regista francese, che svolge alla perfezione il compitino e rende giustizia alla sua fonte di ispirazione. Il problema, però, è che manca il film.

La sceneggiatura di Roger Avary zoppica in maniera tremenda, racconta personaggi poco credibili, le cui scelte illogiche e i cui tristi dialoghi tolgono qualsiasi credibilità alla vicenda. Credibilità minata anche dal design di creature che, francamente, mi sembra funzionino tanto bene in un videogioco nipponico quanto male in un film americano. Ma più che altro in Silent Hill manca la carne, il sangue, la voglia di sconvolgere per davvero lo spettatore.

Troppo patinato e leccatino per attanagliare le budella, troppo legato a meccanismi narrativi da videogame per funzionare altrettanto bene sul grande schermo. Se l’utente PS2 vive il terrore di lasciarci le penne (e doversi rifare chilometri di gioco a piedi), lo spettatore cinematografico segue le vicende di una protagonista che non sembra mai realmente in pericolo, che non riesce a generare angoscia o trasporto.

I problemi di Silent Hill, comunque, stanno tanto nella fredda messa in scena quanto in una sceneggiatura troppo didascalica, impacciata nel fornire spiegazioni superflue, attenta a regalare omaggi e strizzatine d’occhio per gli appassionati del videogioco senza rendersi conto di quanto poco funzionino su pellicola. Il risultato è un film magari non brutto, ma di sicuro largamente imperfetto. Un horror privo di attributi, innocuo e incapace di mordere. Ma anche un’affascinante e barocca esperienza visiva, che merita comunque una visione e, anzi, la esige da parte degli appassionati di videogiochi.