Il terrore del silenzio

Oculus era un bel film horror, con un’ottima gestione dei tempi, raccontato come si deve, graziato dalla bella facciotta di Karen Gillan e che si faceva ricordare soprattutto per quella notevole scena risolutiva, ambiziosa per scrittura, regia e montaggio a cavallo fra realtà e linee temporali. Da allora a oggi, il promettente regista Mike Flanagan si è legato a svariati progetti (l’adattamento de Il gioco di Gerald, il remake di So cosa hai fatto), ha accettato di dirigere Ouija 2 (ma solo perché gli hanno detto di ignorare serenamente il primo episodio), ha tribolato per far uscire Before I Wake dopo il fallimento di Relativity Media (arriva il mese prossimo) e ha scritto e diretto più o meno in segreto Il terrore del silenzio (Hush), portandolo poi al festival SXSW e riuscendo a piazzarlo nelle sapienti mani di Netflix, che la scorsa settimana l’ha messo a catalogo. Insomma, sembra che il ragazzo si stia finalmente facendo una carriera.

E com’è, Hush? È un bel film horror, semplice, diretto, senza fronzoli, che intrattiene dall’inizio alla fine senza avere particolari ambizioni di fare altro. Nella sostanza è un home invasion ridotto all’osso, con una donna chiusa in casa e un uomo che vuole entrare per farla a fette, ma tutto ruota attorno alla natura della protagonista, resa sordomuta da una meningite contratta quand’era adolescente. Su questo si incentra il comportamento dell’assassino, che chiaramente si diverte a fare cose approfittando dell’handicap di lei, e attorno a questo ruotano varie trovate di regia e sceneggiatura, che giocano con la percezione tanto della protagonista, quanto dello spettatore. Non c’è nulla di ambizioso come in quel finale di Oculus, ma ci sono idee azzeccate e ben sviluppate e, soprattutto, c’è un film che funziona e diverte dall’inizio alla fine, senza inventare chissà cosa ma anche senza appoggiarsi su scappatoie banali e centrando alla perfezione il nucleo del racconto.

Flanagan evita gli spaventi forzati a botte di “buh!”, rinuncia anche alla soluzione facile di mettere monologhi in bocca al cattivo e tira fuori un’ora e mezza scarsissima in cui ci saranno al massimo venti minuti di dialoghi. Tutta la parte centrale fa salire la tensione giocando sui silenzi, sulle azioni dei personaggi, su un utilizzo rarefatto delle musiche, su un ritmo perfetto, su una gestione eccellente e sempre chiara degli spazi e su qualche piccolo colpo di scena. La protagonista (un’ottima Kate Siegel, fra l’altro co-sceneggiatrice) si arrangia come può, non diventa mai una macchina da guerra in stile You’re Next ma riesce a dare un senso alla sfida con un pizzico d’inventiva, creando le giuste dinamiche perché funzioni tutto fino alla fine. C’è anche qualche sorpresa, un pizzico di humour nero, il minimo sindacale di azione e un finale che funziona senza inventare nulla. Ecco, siamo sostanzialmente da quelle parti: un film che funziona senza inventare nulla. O senza inventare nulla di clamoroso, via.

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