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Lost – Stagione 2

Lost – Season 2 (USA, 2005/2006)
creato da David Lindelof e J.J. Abrams
con Matthew Fox, Evangeline Lilly, Josh Holloway, Terry O’Quinn, Naveen Andrews, Michelle Rodriguez, Adewale Akinnuoye-Agbaje, Jorge Garcia, Dominic Monaghan, Emilie de Ravin, Harold Perrineau, Daniel Dae Kim, Yunjin Kim, Maggie Grace, Cynthia Watros

Forse perché si erano rese conto di aver creato un cast di personaggi che mi sarebbero stati tutti, dal primo all’ultimo, tremendamente sul cazzo, le menti pensanti dietro a Lost han saggiamente deciso di introdurne uno interpretato da Michelle Rodriguez. E subito mi son ritrovato a rivalutare tutti gli altri in prospettiva, anche se, francamente, il nano tossicodipendente e la strafiga che fa sempre la peggiore scelta possibile fanno davvero di tutto per farsi odiare altrettanto.

Ma forse è proprio questo uno dei punti forti di un serial che riesce a farti appassionare al destino di personaggi che vorresti disperatamente prendere a schiaffi (anche se in effetti del destino del nano non me ne frega davvero nulla, spero anzi che esploda improvvisamente, senza motivo, per un buco di sceneggiatura, e si dimentichino tutti della sua esistenza). La seconda stagione di Lost, comunque, prosegue serenamente sul solco della prima, portando avanti il racconto sui paralleli binari del presente e del passato, riarrangiando e rimescolando di continuo le carte, le certezze e le convinzioni dello spettatore, dilatando mostruosamente i tempi del racconto.

Si svolge tutto nell’arco di qualche settimana, ma che impiega mesi a trascorrere. E, come nella prima annata, succede molto di più nei flashback che nel presente, spesso messo da parte e “ritardato” per far spazio. Ed esattamente come accadeva nella prima stagione, nei momenti più concitati del racconto “presente” il flashback del caso tende a spezzare un po’ troppo il ritmo e a favorire l’orchite. Tanto più che non sempre questi ricordi di tempi che furono aggiungono davvero elementi importanti al racconto e talvolta finiscono per lasciare una certa sensazione di superfluo, di facile pretesto per allungare il brodo.

Ma proprio perché talvolta la brodaglia tende a sembrare davvero un po’ troppo annacquata, spiccano ancora di più certi difetti strutturali, fatti di un modello ripetuto all’infinito e che finisce per rendere davvero un po’ troppo prevedibili gli sviluppi del singolo episodio. Non solo per la caratterizzazione monocorde di certi personaggi, dei loro atteggiamenti, delle loro reazioni a ciò che accade, ma anche per la ripetitiva struttura di tutti gli episodi, che proseguono imperterriti nel riproporre simbolici, affascinanti e prevedibili paralleli, corsi e ricorsi nella vita dei personaggi.

Agli autori di Lost piace parlare di destino, di coincidenze che forse tali non sono, e dei gradi di separazione modello Kevin Bacon. Del fatto che tutti, ma proprio tutti, prima o poi hanno avuto a che fare l’uno con l’altro, della sensazione che nulla accada per caso, che ci sia un disegno più grande o che, se non c’è, il mondo sia davvero tremendamente, mostruosamente, deliziosamente piccolo. E nel raccontare di tutte queste scemenze facendole sembrare come le cose più naturali, interessanti e intelligenti del mondo, Lost si concede anche di mettere in piedi un universo narrativo affascinante, ricco di misteri e che, pur con qualche timida forzatura, continua a sembrare riuscito e coerente.

Ma il motore degli eventi, fra un mistero, una sorpresa, un colpo di scena e una rivelazione, rimane sempre la ragnatela di relazioni fra i personaggi. Il modo in cui interagiscono fra di loro, l’evoluzione delle loro personalità e la loro crescita come gruppo. Ed è forse in questo che, francamente, la seconda stagione mostra un po’ la corda. Nell’incapacità di stare dietro come si deve a tutti quanti, dovuta forse al cast sempre più numeroso e alla necessità di dare maggiore spazio ai misteri dell’isola. Nell’impressione che sia un po’ troppo facile giustificare con lo stress, il panico, la sfiducia, certi atteggiamenti estremi, assurdi, ma soprattutto talvolta un po’ “fuori dal personaggio”.

Eppure, nonostante i difetti, nonostante i passi falsi, il giocattolo funziona ancora a meraviglia, forse proprio perché talmente saturo di elementi interessanti da potersi permettere di trascurare a tratti qualche ingrediente per favorirne altri, mentre si aggiunge condimento e si procede imperterriti nella cottura. Lo zuppone che ne viene fuori, nel suo complesso, ha un sapore entusiasmante. La somma delle parti, ancora una volta, è superiore al singolo valore delle stesse.

Lost – Stagione 1

Lost – Season 1 (USA, 2004/2005)
creato da David Lindelof e J.J. Abrams
con Matthew Fox, Evangeline Lilly, Josh Holloway, Terry O’Quinn, Naveen Andrews, Dominic Monaghan, Emilie de Ravin, Harold Perrineau, Ian Somerhalder, Maggie Grace, Jorge Garcia, Malcolm David Kelley, Daniel Dae Kim, Yunjin Kim

Con un paio d’anni di ritardo sul resto del mondo, finalmente ho messo le mani su Lost e, come mi sta accadendo di continuo in questo ultimo periodo, ho dovuto fare a botte con le aspettative – in questo caso elevatissime – ficcatemi in testa dal vociare altrui. Aspettative filtrate dalla puzza sotto il naso con cui tendo colpevolmente a guardare tutto ciò che non ho “scoperto” da solo e per questo un filo smorzate. Aspettative che, in fondo, sono state anche abbastanza soddisfatte, da parte di un serial appassionante, molto ben costruito e raccontato, che perlomeno in questa prima stagione compie davvero pochi passi falsi e riesce a non far pesare più di tanto i limiti strutturali che si costruisce da solo.

Lost racconta di quarantotto sopravvissuti a un incidente aereo, costretti a sopravvivere su un’isola apparentemente deserta e sicuramente ostile. Racconta dei mille misteri nascosti sull’isola, ma anche di quelli che popolano il passato dei protagonisti. La storia, infatti, procede su due binari che si alternano, saltando continuamente avanti e indietro fra l’avventuroso presente di sopravvivenza spicciola e gli spesso drammatici eventi che hanno portato i vari protagonisti a metter piede su quello “sfortunato” volo di linea.

I famigerati flashback rappresentano per buona parte della prima stagione il reale cuore del racconto. Gli sceneggiatori li utilizzano per approfondire il carattere dei personaggi, ma anche per raccontare sotto differenti punti di vista gli eventi cardine dell’intreccio e per gettare una luce diversa, tramite elementi di analisi sempre nuovi, su quanto avviene nell’isola. È un continuo gettare carne sul fuoco, che svela piano piano i vari misteri, ne aggiunge sempre di nuovi e insinua il dubbio che dietro ogni cespuglio ci sia molto più di quel che appare.

Efficace, appassionante, quasi sempre di grande supporto per il racconto, il trucchetto di spezzare il ritmo e l’azione infilando un flashback inciampa forse solo in un’occasione, quando sminuzza uno dei passaggi più intensi della “vita” sull’isola, uno dei pochi di questo primo blocco di puntate, per raccontare del mediocre, banale e prevedibilissimo passato dell’hobbit sfigato. Ma nel complesso tutto funziona alla grande, un po’ perché al di fuori dei flashback accade davvero poco, e quindi poco c’è da interrompere, un po’ grazie all’ottima scrittura dei vari personaggi.

Protagonisti per lo più tagliati con l’accetta, che rappresentano tutti gli sterotipi possibili e immaginabili, ma che attorno agli stessi stereotipi di cui vivono si muovono molto bene e che fra l’altro hanno il “pregio” di essere tutti uno più insopportabile dell’altro. Certo, son quasi tutti bellissimi, pettinatissimi e fighissimi. Come tutti i passeggeri di un aereo diretto a Los Angeles in un periodo che non sia quello dell’E3, no? Epperò sono anche tutti (o quasi) personaggi di dubbia moralità, ambigui, sfumati, dalle scelte spesso discutibili. E resi fra l’altro ancor più affascinanti da un cast di ottimi attori e dall’impressionante babele linguistica rappresentata dai mille accenti che mettono in scena. Roba che da sola vale metà del divertimento e certo si merita una visione in lingua originale.

E poi, al di là dei personaggi in sé, a funzionare è soprattutto la fitta rete di relazioni fra di loro, in continua crescita ed evoluzione. Costruita su bugie, mezze verità e segreti, che piano piano vengono al pettine e contribuiscono a montare l’atmosfera crescente di paranoia, panico, timore, sfiducia. La vita sull’isola logora e il costante aumento di tensione si fa in fretta palpabile, vivido, trascinante. I ritmi del racconto diventano sempre più elevati, i corposi flashback iniziano a cedere un po’ il passo, lasciando posto all’azione e ai misteri, e delle inconsistenze, dei bucherelli di sceneggiatura, di qualche comportamento un po’ troppo assurdo, si finisce tranquillamente per fregarsene.

La sostanza è che Lost è – perlomeno in questa prima tranche di episodi – l’antitesi di X-Files. Sicuramente di ciò che la creatura di Chris Carter divenne con gli anni, ma non solo. Là dove il principale interesse per ciò che concerneva Mulder e Scully era la sostanza stessa del mistero da risolvere, in Lost a contare è soprattutto il viaggio, il modo in cui la serie tiene col fiato sospeso e conduce verso l’appuntamento col destino. Là dove in X-Files si rinunciava alla continuità narrativa per dare spazio a fior di divagazioni e diluire nel nulla le trame di fondo, in Lost si intravede sempre e comunque, anche nell’episodio più autoconclusivo, un grande affresco, sempre più tratteggiato e meglio delineato davanti agli occhi dello spettatore. E se già nel primo anno di X-Files si andava palesemente avanti un po’ a tentoni (“tanto poi mettiamo due colpi di scena a caso e si aggiusta tutto”), qui c’è perlomeno l’impressione di un quadro coerente e chiaro nelle mani di chi dirige tutto.

Così come X-Files, comunque, Lost ha l’ulteriore grande pregio di saper anche scherzare, seppur in maniera fin troppo ostentata e grossolana, sulle sue stesse falle. Per esempio sul fatto che ci sia un gruppetto di superstiti totalmente inutili e di tappezzeria, buoni solo per apparire, dire la loro stronzata e, magari, lasciarci le penne. Un po’ come accadeva a quei poveretti dell’Enterprise che avevano la sfiga di vestirsi in rosso. E se è vero che un po’ stona, vedere un tizio mai apparso per quindici e più puntate atteggiarsi all’improvviso da gran protagonista, bisogna anche concedere che non tutti i serial hanno la consapevolezza e la faccia di tolla necessarie ad ammetterlo pubblicamente e a prendersi per il culo sull’argomento. Cosa che, per come la vedo io, legittima di parecchio quasi qualsiasi pacchianata.

Meno accettabile, e forse anche più fastidioso, è l’altro evidente difetto “di serialità”, rappresentato da una certa ripetitività di fondo negli atteggiamenti e nelle caratterizzazioni dei personaggi. Una cosa probabilmente accentuata dalla visione di tutti gli episodi a stretto giro di tempo, ma comunque presente. In ogni puntata, ogni personaggio fa la sua “mossa”. Sawyer sembra che stia per dire/fare qualcosa di buono, ma poi cambia idea e piazza la battutina e il sorrisetto ammiccante. Kate osserva il vuoto con lo sguardo malinconico e il broncio. L’australiana si lamenta. Locke elargisce una perla di saggezza…

Sembra di vedere la barriera della Fortezza delle scienze che si infrange sempre un attimo prima dell’arrivo di Mazinga, Daitarn che sconfigge sempre il nemico con la filastrocca dell’attacco solare o, ancora meglio, i vari protagonisti di Orange Road che ogni volta ripetono la stessa tiritera di equivoci, siparietti comici, delusioni, flirtarelli e ammiccamenti. Insomma, Lost è un cartone animato giapponese. Forse è per questo che mi piace!

The Fog (2005)


The Fog (Canada/USA, 2005)
di
Rupert Wainwright
con
Tom Welling, Maggie Grace, Selma Blair, DeRay Davis

La recente ondata di remake di horror “antichi” (o di origine asiatica) ha fruttato risultati altalenanti, ma nel complesso non del tutto disprezzabili. In fondo il The Ring occidentale è un buon prodotto, La maschera di cera mi ha soddisfatto parecchio e ho sentito parlare molto bene anche dei nuovi Non aprite quella porta e Le colline hanno gli occhi. Il beneficio del dubbio, quindi, mi è venuto spontaneo concederlo, a questo The Fog. Grosso errore.

Pacchiano, sgrammaticato, sconclusionato, impacciato, tutto ciò che indica sostanziale mediocrità può essere detto del remake diretto da Rupert Wainwright. Un film assemblato male, che manca di ritmo, fatica a costruire anche solo un vago accenno di tensione, si perde in una trama senza capo né coda e sfocia nel ridicolo completo con un finale da Silly Symphonies. The Fog edizione 2005 è, molto semplicemente, brutto.

E a voler fare un paragone con l’originale di Carpenter, che pure era tutt’altro che un capolavoro, ci si ritrova a sparare sulla croce rossa. Svanite nel nulla, forse proprio nella nebbia, quell’atmosfera affascinante e morbosa e quella lenta e inesorabile crescita della tensione. L’intreccio, che già a suo tempo danzava pericolosamente sull’orlo del baratro, viene sviluppato oltre il lecito e precipita nel ridicolo. Le trovate più interessanti, su tutte il personaggio della DJ che rimane chiusa nel faro a trasmettere per guidare i cittadini verso la salvezza, vengono del tutto eliminate. Non rimane nulla, se non qualche bella ripresa dall’alto della nebbia che inghiotte l’isola e un concreto senso di amarezza.