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Onora il padre e la madre


Before the Devil Knows You’re Dead (USA, 2007)
di Sidney Lumet
con Philip Seymour Hoffman, Ethan Hawke, Albert Finney, Marisa Tomei

Quanto il titolo italiano di ‘sto film faccia cacare e non valga un decimo dell’originale non vale neanche la pena dirlo, ma ormai sono talmente fissato su ‘ste cose da essere macchietta e non posso certo uscire dal personaggio. Quanto bravo sia Philip Seymour Hoffman, bravo da far paura, bravo nonostante qualsiasi doppiaggio, bravo perché recita col corpo come pochi altri, pure, è quasi inutile e banale dirlo. Ma io lo dico lo stesso perché qui è bravo per davvero.

E poi bisogna dire che bravi in ‘sto film lo sono tutti, chi più chi meno. Bravo Ethan Hawke, che forse va un po’ troppo sopra le righe, ma quasi riesce nell’impresa di non starmi sulle palle come suo solito. Mostruosamente bravo Albert Finney, che sta male lui per davvero e stiamo male noi che lo guardiamo. Brava pure Marisa Tomei, che interpreta un ruolo un po’ del cazzo, ma lo interpreta davvero bene.

Ma in realtà la cosa che mi colpisce per davvero è il modo in cui Before the devil cha cha cha mi è cresciuto dentro. Mentre lo guardavo, pur notando la lancinante bellezza di certi momenti – l’abbandono coniugale su tutti – pur gustandomi la perizia e la lucidità con cui Lumet costruisce le sue scene madri, non riuscivo a farmi prendere fino in fondo. Forse perché questa voglia di tratteggiare una serie di rapporti umani e familiari sterili, vuoti, piatti, privi d’emozione positiva finisce per rendere un po’ freddo il racconto e limitarlo al thrilling del colpo andato male. O magari perché di storie dalla scansione temporale scombinata ne ho un po’ pieni i coglioni e, oltretutto, mi sembra davvero che qui la cosa non aggiunga nulla, se non la voglia di fighettare un po’.

Epperò, a ripensarci adesso, in mente mi resta soprattutto il tragico, drammatico, asfissiante pugno nello stomaco dell’ennesima storia fatta di perdenti destinati a perdere. Gente che vive sotto il livello di un mare saturo di lordura e lercio inquinamento, che prova ad alzare la testa un’ultima, disperata volta e finisce per ingoiare solo altri liti di acqua sporca e merda. Senza ammiccamenti, facili ironie, luci di speranza, ma anzi, con il rimorso e la triste consapevolezza di aver fatto ben più che l’ennesimo errore. Di essere riusciti a mandare per davvero tutto a puttane. Avercene, di ottantenni talmente lucidi da firmare roba del genere, tanto cruda, spiazzante e davvero priva di compromessi.

Prova a incastrarmi

Find Me Guilty (USA, 2005)
di Sidney Lumet
con Vin Diesel, Ron Silver, Peter Dinklage

Prova a incastrarmi racconta del più lungo processo per associazione a delinquere di stampo mafioso che si sia mai visto negli Stati Uniti d’America. Un interminabile procedimento al termine del quale, dopo dieci anni di indagini, ottocentocinquanta prove esibite, oltre cinquecento giorni di estenuante procedura legale, i venti accusati furono tutti assolti.

Nel raccontare queste vicende, Sidney Lumet si concentra sulla figura di Jack DiNorscio. Quando inizia il processo, Jackie è già stato incastrato per traffico di droga e sta scontando la sua condanna. Nonostante le allettanti proposte che gli vengono fatte, si rifiuta di tradire i suoi amici per collaborare con l’accusa e decide di difendersi da solo. Il personaggio interpretato da un ottimo Vin Diesel diventa così il simbolo di un processo delirante, e viene usato da Lumet per mettere in luce le assurdità di un sistema giudiziario talmente complesso e deficitario da sfidare il buon senso.

Nel fare questo, però, il regista si dimentica – magari volontariamente – della tensione drammatica. Prova a incastrarmi non è il classico film “legale” in cui l’esito del processo tiene lo spettatore col fiato sospeso. Vive di bei momenti, delle “sparate” di DiNorscio davanti a giudice e giuria, del confronto col cugino che ha tentato di ucciderlo, dell’incontro con l’ex moglie. E a rendere queste scene piacevoli ci pensano i dialoghi brillanti e azzeccati e le ottime interpretazioni di tutti gli attori.

Una volta giunti al termine dell’estenuante processo, però, diventa difficile relazionarsi emotivamente agli eventi. Certo, il film ci presenta un gruppo di mafiosi come simpatiche e piacevoli macchiette, messi di fronte a un procuratore insopportabile, che chiama al banco testimoni incerti e inconsistenti al punto da far venire dubbi sulle verità che indubbiamente presentano. Ma allo stesso tempo non ci viene permesso di dimenticare che, per quanto divertenti possano essere, si tratta pur sempre di mafiosi, gente dalla vita inaccettabile e imperdonabile, e che difficilmente si può gioire per la loro assoluzione.

Lo stesso protagonista è un personaggio ambiguo, dai modi ammalianti e accattivanti, disposto a tutto per non tradire l’affetto e la fiducia dei suoi amici, ma contemporaneamente squallido e miserevole nei racconti del suo passato. Ed è infatti tutto per lui un finale agrodolce, che unisce al sorriso della vittoria la consapevolezza di non poter sfuggire all’ancora lunga condanna da scontare. Prova a incastrarmi è un film amaro e interessante, cui manca però la scintilla che avrebbe potuto renderlo davvero grande.

P.S.
Sì sì, lo so, sono monotono, ma chi se ne fotte: ho visto questo film su Sky, in originale coi sottotitoli in italiano. Non so se i sottotitoli seguano il doppiaggio alla lettera, ma se lo fanno spiace davvero, perché contengono una gran quantità di ingiustificabili cambiamenti, apparentemente finalizzati a volgarizzare e rendere più bassa la comicità dei personaggi. Insomma, ci siamo capiti.